Mentre il libro di Daniele si trova fra Ezechiele e il libro dei XII Profeti nella maggior parte delle traduzioni bibliche (in linea con i manoscritti della versione greca e la Volgata), nei manoscritti della Bibbia ebraica invece si trova nella terza sezione del Tanakh, cioè gli Scritti o Agiografi (Ketubîm) – e ciò nonostante il fatto che antiche fonti ebraiche e cristiane si riferiscono a Daniele come un profeta (e.g. 4Q174 [4QFlor] Frags. 1, col. II, 3, 24, 5, 3; Mt 24,15). La posizione del libro fra gli Scritti probabilmente si spiega dal fatto che la collezione dei Profeti (anteriori e posteriori) era già vista come chiusa prima dell'edizione finale di Daniele. In ogni caso dal punto di vista del tipo testuale è corretto separare il libro di Daniele da quelli dei profeti, perchè si tratta di un libro che appartiene al genere apocalittico come descritto nella lezione precedente.
In questa lezione introduttiva i punti principali sono:
Ci sono tre pagine di bibliografia per questa lezione: commentari su Daniele, studi generali sul libro, e alcuni titoli storiografici sul periodo ellenistico.
Il libro di Daniele è stato trasmesso in due forme: una più breve, di 12 capitoli, nei manoscritti massoretici; l'altra più lunga, di 14 capitoli, nei manoscritti greci. La materia in più nei testi greci si chiama di solito "Le Addizioni (deutero-canoniche) a Daniele"; vengono accolte come parte del libro canonico da Cattolici e Ortodossi ma non da Ebrei e Protestanti. Vediamo prima (1.1) il contenuto dei 12 capitoli riconosciuti da tutti, e poi (1.2) le aggiunte dei testi greci.
Cominciamo (1.1.1) dal contentuto di Dan 1-12, e poi (1.1.2) esaminiamo il problema delle lingue in questi capitoli.
Dal punto di vista del genere letterario e della tematica Dan 1-12 si presenta in due parti quasi uguali: nei capp. 1-6 troviamo diversi racconti che trattano di Daniele (e dei suoi tre compagni) in stile narrativo di terza persona, mentre nei capp. 7-12 abbiamo una serie di visioni apocalittiche presentate in prima persona da Daniele.
1.1.1.1 I racconti su Daniele nei capp. 1–6
Il tono dominante dei racconti è subito percettibile nel primo episodio che introduce il personaggio Daniele (Dan 1). Secondo il testo Daniele è un giovane nato in Giuda e deportato in Babilonia nel terzo anno del re Ioiakim di Giuda (i.e. 606 a.Cr.). Scelto per un servizio nella corte del re di Babilonia come scriba, traduttore, ecc., Daniele con tre compagni chiede di non mangiare il cibo (ritualmente impuro) dato ai tutti i giovani nel corso triennale di formazione ma di nutrirsi solo di legumi e acqua. Un gesto forte di fedeltà alla Legge e alle tradizioni religiose proprie, che viene premiato da Dio non solo con ottima salute corporale ma anche con il dono "...di conoscere e comprendere ogni scrittura e ogni sapienza", e Daniele in particolare viene reso "interprete di visioni e di sogni" (Dan 1,17: saggezza mantica!). Si capisce subito che il racconto vuole edificare i suoi lettori, incoraggiandoli ad essere fideli alla Legge di Dio anche in mezzo a situazioni difficili in ambiente pagano; tale fedeltà verrà ricompensata generosamente da Dio.
I racconti che seguono nei capp. 2-6 continuano nello stesso tono di edificazione e esortazione. Si insiste sulla saggezza di Daniele e la sua capacità (donata da Dio) di interpretare sogni e visioni (capp. 2, 4, 5). La ricca e straordinaria ricompensa divina per la fedeltà viene illustrata nel racconto dei tre giovani nella fornace ardente (cap. 3) e in quello dove Daniele viene messo nella fossa dei leoni (cap. 6). Infatti, il Dio di Daniele è il Signore di tutto il cosmo, e anche i re più potenti di questo mondo sono totalmente soggetti a Lui (cap. 4 racconta la pazzia del re Nabuchodonosor, e nel cap. 5 il destino del re Baldassàr viene scritto sulla parete della sala dei banchetti da una mano misteriosa).
Questi sei episodi sono relativamente indipendenti l'uno dall'altro, cioè, non costituiscono un racconto continuativo. Si tratta dunque di una collezione di racconti edificanti, il cui genere letterario viene definito da alcuni come "leggende di corte" (Collins) oppure da altri come "racconti didattici sapienziali" (Haag). La maggior parte degli studiosi è dell'avviso che vengono originariamente dalla Diaspora ebraica orientale (in Babilonia o Persia) e che successivamente sono stati ritoccati in Gerusalemme. Lo scopo originale dei racconti è chiaro: incoraggiare gli ebrei della diaspora a rimanere fedeli alla Legge e alle tradizioni proprie, anche per mantenere un senso di identità collettiva.
In fine, bisogna notare in particolare il racconto nel cap. 2 (il sogno di Nabuchodonosor), che rientra sì nella serie di racconti edificanti ma contiene anche alcuni motivi che preludono al genere apocalittico ("rivelazione del mistero" [2,19]; linguaggio simbolico; periodizzazione della storia). Manca però il motivo di mediatore sovrumano della rivelazione, per cui è meglio non parlare di testo apocalittico in senso pieno.
1.1.1.2 Le visioni apocalittiche dei capp. 7–12
Le quattro unità letterarie nella seconda parte del libro (capp. 7; 8; 9; 10-12) sono tutte racconti di visioni apocalittiche, che evidenziano le caratteristiche del genere apocalittico (cf. la lezione precedente). È Daniele stesso che racconta le visioni in prima persona; come di solito nell'apocalittica, non è in grado di capire il senso di ciò che vede (contrasto con il Daniele dei capp. 1-6!) ma ci sono degli angeli che interpretano e spiegano il significato delle visioni. In generale, il contenuto delle quattro visioni è una presentazione simbolica di vari periodi della storia in funzione del compimento escatologico (gli imperi l'uno dopo l'altro sorgono e poi cadono al tempo stabilito da Dio, tutto va verso il grande culmine che è l'inaugurazione del regno definitivo di Dio).
Lo scopo di questi racconti di visioni non è solo di esortare e di incoraggiare alla fedeltà (come nei capp. 1-6) ma anche di dare ai credenti una conoscenza infallibile del disegno di Dio nella storia umana. Grazie a questa certezza, i credenti possono sopportare anche la persecuzione e addirittura il martirio, sapendo che le forze del male verranno certamente sconfitte alla fine dei tempi quando Dio si manifesterà e ridarà la vita ai suoi fideli, risuscitandoli dalla morte.
Nei manoscritti massoretici, e conseguentemente nelle edizioni della Bibbia ebraica, Dan 1-12 è bilingue: testi in lingua ebraica all'inizio (1,1–2,4a) e alla fine (capp. 8-12), e testi in lingua aramaica nel mezzo (2,4b–7,28). Il cambiamento è notato esplicitamente nel 2,4a (in ebraico): "I caldei risposero al re in aramaico:...", e poi il testo prosegue appunto in aramaico. Anche se il bilinguismo di Daniele non è un caso unico nella Bibbia (ci sono brani in ebraico e in aramaico anche nel libro di Esdra), colpisce questo cambiamento in mezzo ad un versetto e non all'inizio di uno dei racconti. Inoltre la divisione linguistica non corrisponde alla divisione dei generi letterari, in quanto da una parte il primo racconto edificante (Dan 1) è in ebraico mentre gli altri sono in aramaico (a parte 2,1-4a), e dall'altra parte la prima visione apocalittica (Dan 7) è in aramaico mentre le altre sono in ebraico. I frammenti di Daniele trovati a Qumran hanno confermato l'antichità di questa divisione linguistica.
Come spiegare questa strana situazione? Gli studiosi da molto tempo hanno offerto diverse ipotesi più o meno convincenti, senza però arrivare ad un ampio consenso quanto ai dettagli. Un fattore, notato da molti, è lo status della lingua ebraica nel secondo sec. a.Cr. (data dell'edizione finale del libro, come vedremo): in quel tempo l'aramaico era ormai la lingua parlata dalla maggior parte della gente in Giuda, mentre l'ebraico veniva visto come una "lingua sacra". Forse per questo il primo capitolo del libro (insieme con 2,1-4a) è stato tradotto dall'originale aramaico all'ebraico per facilitare l'accoglienza del libro come libro sacro. In ogni caso, è chiaro che il bilinguismo di Dan 1-12 costituisce già un forte indizio di una complicata storia di formazione del libro (cf. sotto).
Prima (1.2.1) vediamo la natura di queste aggiunte, e poi (1.2.2) notiamo le due forme distinte di Daniele-greco.
Si tratta in primo luogo di due interi capitoli: Dan 13 (la storia della casta Susanna salvata dal giovane saggio Daniele) e Dan 14 (racconti satirici che prendono in giro l'idolatria: la vicenda della statua dell'idolo Bel e poi il culto di un Serpente o Dragone). E poi ci sono lunghe aggiunte all'interno del cap. 3 (la Preghiera di Azaria nei vv. 24-45; un breve racconto in prosa nei vv. 46-50; l'Inno dei Tre Giovani nei vv. 51-90) [la numerazione dei versetti può essere diversa in alcune traduzioni].
I quattordici capitoli di Daniele-greco sono stati trasmessi in due
forme distinte, che sono assai diverse fra di loro:
• la versione greca antica (la cosiddetta Settanta), testimoniata in
pochissimi manoscritti e versioni secondarie (la versione Siro-Esaplare)
• una versione più recente, detta di Teodozione (Theodotion),
testimoniata nella grandissima maggioranza dei manoscritti dove ha
sostituito la versione greca antica.
Ambedue le versioni sono antiche, come si può concludere dal fatto che il libro dell'Apocalisse del NT ha dei contatti con tutte e due (almeno 7 con la versione greca antica e 15 con Teodozione). La versione greca antica, secondo gli specialisti, dovrebbe datare dal ca. 100 a.Cr. (o forse anche un po' prima), mentre il più recente Dan-Teodozione viene probabilmente da più avanti nel primo sec. a.Cr.
Per complicare ancora di più la situazione, bisogna notare il problema particolare del testo di Dan 4-6, dove la versione greca antica è molta diversa dal testo aramaico mentre la versione di Teodozione è in linea con l'aramaico; sembra che la versione greca antica abbia tradotto un'altra forma di testo aramaico.
Non entriamo ulteriormente in queste problematiche difficili di storia della trasmissione del testo di Daniele. Si può comunque già intuire da questi dati testuali che la storia della formazione del libro doveva essere assai complessa.
Anche se ci sono dei riferimenti in Dan ai re babilonesi (Nabuchodonosor) e ai re persiani (Dario ecc.), le menzioni esplicite della Grecia (8,21 e 10,20: yawan "Ionia") e le guerre descritte nel cap. 11 ci orientano all'epoca ellenistica come sfondo storico per l'edizione finale del libro ebraico-aramaico di Daniele. Accenniamo prima (2.1) molto sinteticamente alla situazione generale di Gerusalemme e Giuda nel periodo ellenistico fino a ca. 180 a.Cr., e poi (2.2) vediamo più in particolare le vicende del re ellenistico Antioco IV Epifane (r. 175–164/63 a.Cr.).
Il periodo ellenistico nella storia dell'area Siro-Palestinese iniziò intorno al 330 a.Cr. con la conquista di Alessandro Magno. Dopo la morte del re macedone nel 323 (all'età di soli 33 anni), il suo vasto regno che s'estendeva dalla Grecia fino all'India è stato diviso de facto fra alcuni dei suoi generali, i cosiddetti Diadochi ("successori"). Diverse guerre fra questi successori furono combattute negli anni successivi in un quadro complessivo di grande confusione, ma per quanto riguarda la Palestina la situazione si stabilì intorno all'anno 300 quando quella zona si trovò sotto il dominio della dinastia ellenistica dell'Egitto, i Tolemei. Dopo questo, per gran parte del terzo secolo a.Cr. la vita interna della comunità di Gerusalemme e Giuda si svolse in relativa tranquillità, nel senso che le autorità ellenistiche dell'Egitto e i loro rappresentanti locali si preoccupavano principalmente del pagamento delle tasse ma non interferirono nelle questioni religiose di Gerusalemme. C'erano certo diverse guerre fra i re ellenistici dell'Egitto e quelli della Siria durante gran parte del terzo secolo (280-200), ma i giudei non avevano un ruolo attivo importante in queste lotte.
Intorno all'anno 200 la dinastia ellenistica della Siria e della Babilonia (i Seleucidi) riuscì a strappare il dominio della Palestina dall'Egitto, per cui Gerusalemme ormai stava sotto i re Seleucidi. Questi avvenimenti però aumentarono le divisioni interne nella comunità di Gerusalemme, dove c'erano già delle fazioni politiche, l'una in favore dei Tolemei, l'altra in favore dei Seleucidi (cf. Dan 11,14). Una altra fonte di divisione, che già esisteva prima del cambiamento di dominio politico, riguardava la questione della cultura greco-ellenistica e la sua compatibilità o meno con il giudaismo. Difatti alcuni a Gerusalemme pensavano che si potevano accogliere vari aspetti della cultura greca pur rimanendo fedeli essenzialmente alla Legge ebraica, altri invece vedevano l'ellenismo come un pericolo mortale per la religione e la cultura ebraica e dunque da respingere totalmente. Queste due tendenze si confrontarono nei circoli influenti della comunità di Gerusalemme (sacerdoti compresi), per cui c'erano delle lotte interne, anche per il posto di Sommo Sacerdote. È importante notare che si trattava allora di una discussione interna alla comunità giudaica; non c'era nessuna politica di imposizione dell'ellenismo da parte dei re Tolemei nè inizialmente dai re Seleucidi.
Le tensioni si acuirono notevolmente durante il regno del re seleucidico Antioco IV Epifane, che regnò dal 175 al 164 a.Cr. Da giovane, Antioco aveva passato un certo tempo a Roma come ostaggio dei Romani, che avevano sconfitto il suo padre, Antioco III, nella battaglia di Magnesia (190 a.Cr.), imponendo anche una pesante indennità annuale di guerra sulla dinastia sconfitta. Quando Antioco IV iniziò a regnare, si trovò subito in difficoltà per ragioni economiche, per cui alcuni anni dopo decise di invadere l'Egitto dove i re Tolemei sembravano deboli in quel momento.
Nel frattempo il "partito" degli ebrei pro-ellenistici a Gerusalemme si era rafforzato, grazie anche a cospicui doni finanziari offerti da loro al re Antioco. Naturalmente l'altro "partito" degli ebrei anti-ellenistici diventava ancora più contrario al re Antioco. Quando dunque nel 168 a.Cr. l'invasione dell'Egitto andò male per Antioco, a causa di un intervento ultimativo dei Romani a favore dei Tolemei, la crisi si precipitò a Gerusalemme. Secondo una possibile riconstruzione degli avvenimenti, quando giunse la notizia della ritirata e dell'umiliazione di Antioco, scoppiarono violenti disordini a Gerusalemme da parte dei "tradizionalisti" anti-ellenistici. Antioco intervenne con severità per ristabilire l'ordine, e per questo scopo decise di imporre la cultura ellenistica su tutta la popolazione, proibendo allo stesso momento le pratiche caratteristiche del giudaismo (circoncisione, divieto di mangiare carne di maiale e altri cibi "immondi", venerazione dei rotoli della Legge, e così via) e obbligando, sotto pena di morte, gli ebrei di sacrificare ai dèi greci. Cf 1 Mac 1 per questi e altri dettagli di ciò che, per gli ebrei, era la prima vera persecuzione religiosa della loro storia. Come misura culminante della soppressione della religione ebraica, il re ordinò la costruzione di un altare pagano sopra l'altare degli olocausti nel Tempio di Gerusalemme; questo probabilmente è il senso del termine "l'abominio della desolazione" di cui parla Dan 9,27 e 11,31 (ripreso poi in Marco 13,14 par.).
Secondo la cronologia più comune la persecuzione si svolse nell'anno 167 a.Cr. Le reazioni degli ebrei erano diverse. Alcuni per paura accettarono le misure del re; era l'apostasia. Altri scelsero la strada della resistenza passiva, rifiutando di obbedire ai comandi del re e accettando di morire come martiri (una teologia del martirio si sviluppò nel giudaismo da quel tempo in poi). Altri ancora decisero di resistere attivamente con una rivolta armata, giudata da un sacerdote Mattatia e i suoi figli (detti poi i Maccabei). La guerriglia inizialmente andò bene, anche perchè i rivoltosi conoscevano bene il terreno, e nel 164 riuscirono ad espellere i soldati di Antioco da tutta Gerusalemme (eccetto la cittadella). Così era possibile purificare e dedicare di nuovo il Tempio nel 164 (avvenimento commemorato fino ad oggi nella festa ebraica delle Luci, Hannukah, nel nostro mese di dicembre). La lotta dei Maccabei contra i Seleucidi durò ancora diversi anni, ma per quanto riguarda il libro di Daniele possiamo fermarci qui per le ragioni che vedremo.
Prima (3.1) vediamo la posizione tradizionale, poi (3.2) notiamo le principali difficoltà per questa posizione, e infine (3.3) sintetizziamo la discussione recente.
A prima vista i dati interni forniscono una risposta chiara alla questione dell'origine del libro. Daniele, secondo cap. 1, è stato deportato da Giuda in Babilonia nell'anno 606 a.Cr e, secondo 10,1, visse almeno fino al terzo anno del re Ciro (536 a.Cr). Allora, visto che le visioni dei capp. 7-12 sono raccontate in prima persona da Daniele, la conclusione deve essere che egli scrisse il libro nel sesto secolo a.Cr. Conseguentemente i molti riferimenti nel libro a vicende dell'epoca ellenistica sono da considerarsi come vere predizioni. Così nelle grandi linee la posizione tradizionale fra ebrei e cristiani.
Già nell'antichità la questione dell'origine del libro di Daniele creava problemi. Un filosofo pagano neo-Platonista, Porfirio (Porphyry), pubblicò un'opera in quindici libri "Contro i Cristiani" intorno all'anno 268 d.Cr., nella quale (fra altro) sostenne sulla base di criteri interni che Dan doveva essere scritto nel secondo sec. a.Cr., e conseguentemente i testi del libro che situano Daniele nel sesto secolo dicono il falso. Una prova dunque contro la verità del cristianesimo! Gli argomenti di Porfirio sono stati discussi da Girolamo e molti altri scrittori cristiani del periodo patristico, che cercavano di rispondere alle sue obbiezioni.
Nei tempi moderni la discussione continua, ormai in sede di studi accademici e non polemici. Effettivamente adesso c'è un largo consenso (anche se non unanimità) fra studiosi cristiani e ebrei che ci sono pesanti difficoltà contra una datazione del libro nel sesto secolo a.Cr.
(1) Le visioni apocalittiche dei capp. 7-12 contengono moltissimi riferimenti ad avvenimenti del secondo sec. a.Cr., in particolare al tempo di Antioco IV. Non si vede bene perchè un profeta del sesto sec. a.Cr. avrebbe avuto tanto interesse nei dettagli della storia di 400 anni dopo di lui. Non c'è nessun caso paragonabile nei libri profetici della Bibbia.
(2) Più precisamente, risulta che gli avvenimenti dell'epoca ellenistica fino al tempo della persecuzione messa in atto da Antioco IV sono presentati con esattezza e precisione, mentre certi riferimenti ai tempi dei babilonesi e dei persiani sono assai più vaghi e in certi casi inesatti. Non si capisce bene come un autore del sesto sec. a.Cr. abbia realizzato una tale presentazione – imprecisa per gli avvenimenti vicini a lui, precisa per avvenimenti quattro secoli dopo di lui.
(3) L'uso della lingua aramaica s'estese fra i giudei più o meno dal 400 a.Cr. in poi e divenne la lingua parlata in modo generale nel secondo sec. in Giuda. Non si capisce come un libro del sesto sec. a.Cr. possa contenere tanti brani in aramaico. Inoltre per quanto riguarda i brani in ebraico: l'ebraico di Daniele mostra diversi tratti tipici dell'epoca postesilica tardiva; non è il tipo di ebraico che conosciamo da altri testi del sesto secolo.
A causa degli argomenti menzionati, ed altri ancora, la stragrande maggioranza degli studiosi oggi ha abbandonato la posizione tradizionale e sostiene che la composizione finale del libro di Daniele avvenne nel secondo sec. a. Cr. durante il tempo di Antioco IV. Ciò non vuol dire, però, che ogni parte del libro ha avuto origine nel secondo sec. Infatti c'è un largo consenso che ci sono dei materiali più antichi soprattutto nei racconti edificanti dei capp. 1-6, che potrebbero avere avuto origine nella prima parte dell'epoca ellenistica o addirittura verso la fine dell'epoca persiana (per poi venir rielaborati più tardi). Non entriamo ulteriormente qui nei dettagli delle varie proposte di storia redazionale del libro, formulate dai commentatori all'interno del quadro generale appena delineato.
Ma che dire allora del personaggio "Daniele"? Probabilmente abbiamo anche in questo caso il procedimento (tipico dell'apocalittica) della pseudonomia. Viene scelto il nome di qualche personaggio famoso del passato per dare più autorità al messaggio del testo. Che ci sia stato un "Daniele" di venerabile memoria risulta da Ez 14,14.20 dove Daniele appare con Noè e Giobbe come tre giusti del passato; appare anche a Ez 28,3 come un uomo famoso per la sua saggezza. Forse c'è anche una connessione con i testi di Ugarit (ca. 14º sec. a.Cr.) dove appare un re giusto e saggio di nome "Dan(i)el" nella "Storia di Aqhat" (ANET 149-155; COS 1.103:343-356). Intorno a questo nome venerabile i vari autori dei racconti edificanti nel nostro libro di Daniele, e poi gli autori delle visioni apocalittiche, hanno costruito i loro testi per comunicare i messaggi necessari per i loro tempi. La verità del libro sta nei messaggi, non nei dettagli materiali "biografici" del personaggio Daniele.